lunedì 30 novembre 2015

L’ora di Lavoro di Poletti e gli altri …



La frase di Poletti: “Dovremo immaginare un contratto di lavoro che non abbia come unico riferimento l’ora di lavoro ma la misura dell’opera. L’ora di lavoro è un attrezzo vecchio che non permette l’innovazione”
La frase che esce dalla bocca di Poletti non è solo farina del suo sacco.
E’ una frase che in realtà dice ben poco ma è orientativa per il ruolo che intende giocare il governo quando si porrà come mediatore in tutte le trattative contrattuali future.
 Nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato la misurazione della retribuzione in rapporto all’ora di lavoro è uno strumento che hanno voluto le stesse imprese e gli stessi lavoratori, e si traduce nei fatti in:
il lavoratore cede un’ora della propria vita in cambio di una retribuzione;
l’imprenditore indica le mansioni da svolgere e le modalità con cui bisogna svolgerle;
il lavoratore ha il compito di svolgere quelle mansioni con diligenza e la mancata diligenza può compromettere il rapporto di lavoro.
 E’ già così, quindi se il Poletti parla di misura dell’apporto, nel campo del lavoro subordinato non sta aggiungendo nulla.
 Nella storia del lavoro ci sono state esperienze di vario tipo che hanno riguardato le mansioni e : non sono una novità il cottimo (cottimo personale e cottimo di squadra per le catene di montaggio);  non sono una novità l’aumento dei ritmi di lavoro (ricordiamo il vecchio film di Chaplin sull’applicazione dei taylorismo); non sono una novità le lotte contro la nocività di alcuni reparti; non sono una novità gli stessi premi di produzione (i premi individuali, di squadra, di reparto, di intera azienda).
 Se tutto questo già esiste quale può essere la novità di cui parla Poletti?
La qualità di un prodotto non è decisa dal lavoratore subordinato, ma dall’imprenditore:  che sceglie il suo staff, che sceglie la produzione da fare, che sceglie l’organizzazione interna dell’impresa; che sceglie il personale adatto.
 Il prodotto alla fine può essere buono o meno buono, di qualità scarsa o di qualità elevatissima; ma alla fine quello che conta è che il prodotto sia venduto sul mercato e che sia in grado di dare dei ricavi: i ricavi andranno a compensare i costi per materie prime e immobilizzazioni, i costi della manodopera, il profitto dell’imprenditore per il suo lavoro e per il rischio d’impresa.
 Allora occorre chiarire se nelle parole “misura dell’apporto” di Poletti e dei suoi suggeritori ci stanno l’entità globale dei ricavi (cioè delle vendite).
 La questione diventa allora più semplice da capire e può diventare nel lavoro subordinato qualcosa di questo genere:
soluzione estrema - mi dai un’ora del tua vita, io ti indico le modalità di lavoro che dovrai svolgere con diligenza, poi io ti pago solo se vendo il prodotto;
soluzione media - mi dai un’ora del tua vita, io ti indico le modalità di lavoro che dovrai svolgere con diligenza, poi io ti pago per una parte in modo fisso e per un’altra parte solo se vendo il prodotto.
 In pratica dietro alle parole “misura dell’apporto” si viene così a nascondere una richiesta di partecipazione alle perdite e ai guadagni. Ma se questo concetto può essere comprensibile e logico all’interno di un rapporto associativo, diventa meno comprensibile all’interno di un rapporto di lavoro subordinato; chi prende le decisioni resta l’imprenditore, che potrà indicare le modalità e decidere ciò che si intende per diligente o meno diligente nella conduzione del lavoro. Non credo che gli imprenditori possano accettare decisioni assembleari di lavoratori e sindacati, e in ogni caso sarebbero poco gestibili.
 Allora attenzione a non innamorarsi scioccamente delle parole e cercare di usare parole chiare per evitare inutile confusione. Noi abbiamo in Italia aziende che tirano e fanno profitti ed aziende che arrancano e che si trovano sull’orlo della chiusura; abbiamo anche contratti di lavoro nazionali che valgono sia per le aziende in buona salute e sia per quelle in pessima salute; la ricerca di una flessibilità nei contratti aziendali è comprensibile. Non si possono stabilire le stesse modalità per tutte le aziende, non si può applicare la paga oraria uguale per tutti e non si può applicare una “misura dell’apporto” applicabile in tutte le aziende. Vanno stabiliti i requisiti minimi e poi lasciare spazi alle contrattazioni aziendali. Ma anche in questa soluzione prospettata ci possono essere dei problemi, perché le aziende che tirano e non hanno problemi di vendite, tenderanno lo stesso a pagare il minimo per aumentare i profitti, profitti che spesso vengono occultati dagli stessi bilanci. Un richiamo alla morale potrebbe essere utile, ma la stessa morale arranca.

 Allora non rivoluzioni parolaie dei nostri ministri e neanche chiusure da parte sindacale, ma attente disposizioni contrattuali che non vadano a strozzare i lavoratori e che non vadano a strozzare gli imprenditori in difficoltà, e che soprattutto siano capaci di combattere la disoccupazione. (f.z.)

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